Mi accingo a scrivere queste note tecniche il 14 novembre 2001, due mesi dopo l’attentato e la strage delle 2 Torri di New York, il giorno della liberazione di Kabul dal regime dei Talebani, con l’Afghanistan ancora devastato
dalla violenza della guerra.
E’ molto difficile capire.
E’ molto difficile capire il senso della violenza, di qualsiasi violenza. Leggere il limite della ragione e del torto in un atto di terrorismo, così come in
un atto di guerra non dichiarata ma reale. Ritrovare un valore qualsiasi in atti così apocalittici.
Pablo Picasso muore nel ’73 ed è dello stesso anno il suo disegno che apre questo foglio: una madre disperata con
un figlio morto in grembo, inno di protesta contro la violenza, terribile nella sua drammatica essenzialità, drammatico nel rifiuto delle forme formali a maggior espressione di una ribellione nei confronti di un mondo tragicamente involgarito.
Il bimbo del disegno è morto. I bambini di questo mondo muoiono. Bambini innocenti di ogni parte della terra muoiono tutti i giorni: in Afghanistan come in Occidente: là per la guerra in corso oggi e domani per le nostre mine italiane;
qui per delitti quotidiani attuati da uomini come noi, ma profondamente deviati pur nell’apparente ricchezza globale.
La tragica violenza della vita quotidiana inosservata. Il furore della solitudine nelle metropoli gremite. La rabbia per
un consumismo spinto alla perdita di ideali. Munch con “Il grido”, Picasso con “Guernica”, Piero Manzoni con la sua “Merda d’artista” così ben confezionata poco prima del suicidio,
le avanguardie della Body Art con opere piene di autolesionismo reale. La perdita delle forme del reale con i Fauves, con l’astrattismo e il cubismo, gran parte dell’arte moderna esprime una disperata e dolorosa protesta verso un reale
che ha tradito le aspettative, verso un progresso scientifico e tecnologico che ha dilatato tutto, la vita come lo sterminio e l’agonia.
Forse questo mondo ci vedrà costretti a tollerare senza capire? A soffrire senza capire?
Ad agire senza capire? Sapremo anche e ancora continuare ad amare senza capire?
Ma perché ho scritto tutto questo? Con quale scopo?
Perché fondamentalmente sento che, quando effettuo un’amniocentesi, esercito
una violenza o, se vogliamo metterla in termini più blandi, un atto con dei risvolti di potenziale violenza. Esercito dolce violenza sulla Paziente che si sottopone volontariamente ad un atto medico invasivo e aggressivo; violenza di fondo sulla Natura,
che vorrebbe seguire con tutta semplicità il suo corso naturale; violenza terribile sul Feto, che non sa niente, non può dire niente, è completamente e disperatamente innocente e inerme; violenza mistificata su me stesso, che
accetto il fatto pur soffrendolo e vivendolo come qualcosa di distorto.
Ma anche la Natura ci tradisce esponendoci spesso a situazioni patologiche, pericolose. Anche la Natura sa essere violenta, a volte senza un controllo possibile.
E
anche la Società è violenta, creando situazioni incompatibili con la malattia, con l’handicap, con il disadattamento.
Di nuovo mi chiedo: dov’è il giusto? Dov’è il senso della violenza espressa nella malattia?
Chi mi sa rispondere con una verità assolutamente certa?
Per questo ho scritto: perché non posso, non so rispondere alla domanda “Dottore, cosa devo fare?”, perché questa domanda dovete rivolgerla a Voi stessi, perché
la Vostra testa non è la mia testa e la Vostra vita non è la mia vita. E perché in questo momento voglio violentarvi, costringervi a pensare: per un pochino, per un attimo almeno dovete pensare, dovete prendere esattamente
coscienza di cosa sta succedendo, di cosa avete voluto fare, di come vorreste che fosso il futuro, di come starete a secondo delle decisioni che vorrete prendere, di quale vita volete vivere.
Nessuno potrà commentare la Vostra decisione, nel
bene o nel male. Nessuno oserà criticare. Nessuno dovrà fare festa. In qualità di curante rispetterò le Vostre decisioni.